IL MANIFESTO ARTISTICO DEL RINNOVAMENTO METRICO







1.2. Il ruolo profetico del poeta
1.3.  Il manifesto artistico del rinnovamento metrico



Le tre elegie fatte con «misura latina», inserite nella Scelta, costituiscono una preziosa testimonianza di questi esperimenti metrici e della loro dimensione profetica, nonché, insieme al distico citato nell'apertura dell'appendice, tutto ciò che resta di questo singolare progetto campanelliano. 
La loro collocazione alla fine della raccolta di poesie filosofiche, selezionate dall’Autore per la pubblicazione, è quanto mai emblematica. L’opera sembra volersi chiudere con la speranza, sospesa tra certezza e angosciata attesa della sua realizzazione, che il significato ultimo racchiuso in questi tentativi di rinnovamento poetico, allo stesso tempo espressione della sua imminenza, giunga a compimento. 
Nell’ultima di esse, Al Sole, la disumana condizione in cui scrive Campanella da a questa apertura verso un cambiamento epocale una forza prorompente, che riempie di disagio e ammirazione, quasi in questa ‘trilogia’ conclusiva si racchiudesse, una rinnovata, e ancor più salda in quanto posta a dura prova, fiducia nella perfetta ragione divina, oltre le sofferenze inenarrabili di Castel Sant’Elmo e la violenza presente dei domini umani. 
Al senno latino, la prima delle tre elegie, può essere invece considerata una sorta di manifesto artistico campanelliano per il rinnovamento metrico[312] della poesia volgare. C’è tutto quello di cui abbiamo parlato, in una densità tematica che non scalfisce la qualità poetica e l’efficacia del messaggio: 

“Musa latina, è forza che prendi la barbara lingua:
quando eri tu donna, il mondo beò la tua.
Volgesi l’universo: ogni ente ha certa vicenda,
libero e soggetto ond’ogni paese fue.
Cogliesi dal nesto generoso ed amabile pomo.
Concorri adunque al nostro idioma nuovo.”[313]

La poesia si apre con l’introduzione, in una struttura a chiasmo (“musa latinabarbara lingua”), delle due componenti che, superando la contrapposizione iniziale, troveranno sintesi e unificazione nella «metrica barbara»: la lingua volgare e la misura latina. Il loro avvicendamento assume subito una dimensione storica, che, grazie alla forma descrittiva dei primi versi (2-5), acquista e carica di oggettività gli assunti campanelliani. La poesia latina, che dominò il mondo e lo dilettò con la sua lingua, ha come ogni ente una storia caratterizzata da un susseguirsi di condizioni differenti, che testimonia la sua partecipazione agli avvicendamenti del ciclo storico, in cui i contrari, in un succedersi di libertà e servitù, prima si susseguono e poi si uniscono. 
E’ il manifestarsi di una necessaria legge naturale, che accomuna il rinnovamento metrico al rinnovamento generale della conoscenza, nelle sue implicazioni politico-profetiche. L’ora che la misura latina elevi la lingua volgare all’universalità che ne aveva contraddistinto l’esperienza originaria è giunta, l’imminenza di questo rinnovamento è inscritto nella storia, e come spiega lo Stilese nell’Esposizione, «bisogna accomodarsi al tempo». 
La legge generale appena citata, sembra volersi far riconoscere attraverso una veste particolare, che va oltre la sua importanza estetica e che fa della bellezza un prodotto naturale dell’unione dei diversi. L’innesto tra l’artificialità impotente del presente e quel passato, che non aveva distorto il suo rapporto privilegiato con la natura, viene presentato come una realtà oggettiva e necessaria, attraverso la quale Campanella, in un saggio e persuasivo alternarsi di descrizione ed esortazione, ci conduce, ogni volta come fosse una naturale conseguenza di quanto dimostrato nei versi precedenti, ad esortazioni che personalizzano con sempre maggior intensità ed ampiezza quanto detto nella prima: «concorri adunque al nostro idioma nuovo»!. Qui, ad esempio, utilizzando l’immagine dell’innesto, legata ad un linguaggio comune come quello del lavoro agricolo, l’Autore «fa diventare semplice e credibile» una legge profonda come la ‘naturale unificazione dei contrari’, che regola il ciclo storico[314]. Se l’efficacia del linguaggio poetico sta nella capacità di agire sulle passioni e di modellare l’animo dell’ascoltatore, ecco che «la comunicazione della conoscenza trascina con sé l’azione»[315], che è il fine delle esortazioni campanelliane, a cui sa far riconoscere, senza imporli, attributi quali urgenza, necessità ed imminenza. L’appello finale inizia con la ripresa del vocativo del primo verso («Musa latina»), dando ciclicità, in un movimento duplice in cui la seconda parte amplifica la prima nel ritmo e nei motivi, alla struttura stessa della elegia. Se la prima parte si giocava nel rapporto tra un tu e un noi («nostro idioma nuovo»), nella seconda parte Campanella gioca a carte scoperte e associa, a se stesso e alla propria azione, un destino profetico:  

“Musa latina, vieni meco a canzone novella:
te al novo onor chiama quinci la squilla mia:
sperando imponer fine al miserabile verso,
per te tornando al già lacrimato die.
Al novo secolo lingua nova in strumento rinasca:
può nuova progenie il canto novello fare.”[316]

E’ il tema del nuovo che emerge. Se nella prima parte era il punto d’arrivo, qui diventa ossessivo, incombe sulla conclusione di una fase storica negativa e, nella speranza che porti con se la fine del «miserabile verso» dei falsi poeti contemporanei ed il ritorno a quel dialogo con la natura che aveva contraddistinto giorni a lungo rimpianti, si crea un contrasto tra la certezza del suo compimento e l’angoscia che ne carica inevitabilmente l’attesa. Nella prospettiva di una rinascita globale, «novo secolo» e «lingua nova» sono posti l’uno a fianco all’altro, in un ordine che fa del rinnovamento metrico un prodotto e un segno naturale del rinnovamento politico-profetico, per il quale Campanella può agire concretamente, creando, attraverso il suo «canto novello», «nuova progenie». E’ un ‘nuovo’ che rinasce dall’antico, dalla sua armonia con la natura, da un ‘trapianto’ del passato, chiamato a «novo onor», nel presente. Ripetere diventa un sofferto scongiurare, che fa assumere alla poesia «una forte dimensione conativa»[317]
La conoscenza della legge che regola il ciclo storico diventa uno strumento indispensabile al sapiente per cogliere i segni delle possibili mutazioni. Permette all’uomo di agire e di partecipare attivamente alla realizzazione  del ‘nuovo’, ma necessita anche di uno sguardo universale e metastorico, che attribuisce alla vera conoscenza una dimensione necessariamente profetica. Fuori e dentro la storia, sembra essere un presupposto: fuori per conoscere la naturale prospettiva universale della «commedia umana», e dentro per agire concretamente in sintonia con le leggi della perfetta ragione divina. L’azione del poeta-profeta, e questo è in ultimo la «metrica barbara», si affida, nella seconda parte della elegia, ad una complessiva rinascita storica, di cui il rinnovamento metrico «è, nello stesso tempo, e a seconda della prospettiva adottata, segno e causa»[318]. I riferimenti letterari, riconosciuti dalla critica, sono una preziosa testimonianza della memoria letteraria dell’Autore e acquistano una valenza emblematica che rafforza alcuni motivi primari dello Stilese. Da un lato quel riecheggiamento dantesco, individuato da M. Guglielminetti  in «concorri adunque al nostro idioma nuovo», che ci riporta al problema della formazione di un linguaggio che abbia le caratteristiche della lingua originaria[319]. Dall’altro quel «nuova progenie», che L. Bolzoni ricollega ad un passo virgiliano della IV ecloga delle Bucoliche, un testo associato al tema del ritorno all’età dell’oro[320]. Due tematiche che sono accomunate dalla nostalgia del passato, dalla sua essenza originaria e naturale, e che nella prospettiva campanelliana acquistano, nell’«innesto» con il presente, un prorompente forza innovatrice. 
L’esposizione, che segue il testo poetico, va ben oltre la sua funzione primaria di guida all’interpretazione dell’elegia, e ne diventa un’ulteriore evoluzione che ci fornisce mirabili informazioni: «l’Italia sempre è imitata, comunque ella parli. Il che è segno e causa d’imperio, perché l’imitato dona legge agl’imitanti. Poi si vede che, facendo novelle rime e modi di poetare, sperava dar fine al vecchio secolo, in cui piangeva intra la fossa»[321]
Se nella prima proposizione sviluppa e unisce motivi annunciati nei distici centrali (“il Fato a te die’certo favore, perché comunque soni, d’altri imitata sei: d’Italia augurio antico e mal cognito, ch’ella d’imperii gravida e madre sovente sia”), che separano i due passi che abbiamo citato, e sembra quasi trasferire i poteri magici della poesia all’«Italia»[322], al potere del suo parlare di generare imitazione, che la rende «segno e causa d’imperio», unendo innovazione metrica e profezia, nella seconda la dimensione autobiografica si ricollega con estrema intensità all’avvento di una rinascita generale. La speranza di «dar fine al vecchio secolo» e d’invertire la sorte della propria esistenza vanno nella stessa direzione, che sembra legare in un legame inscindibile rinnovamento della condizione umana, la cui decadenza si esprime nelle sofferenze del Campanella («piangeva intra la fossa»), rinnovamento metrico e rinnovamento politico-profetico. E qui raggiunge maggior chiarezza quella convivenza, ad un primo sguardo contraddittoria, tra convinzione profetica e speranza carica di incertezza. 
Nella Scelta, all’elegia che abbiamo affrontato, segue una traduzione «alquanto libera»[323] del davidico Salmo CXI, Beatus vir qui timet, che non offre argomentazione rilevanti per la nostra tesi. Unanimente considerato un’esercitazione dimostrativa, la cui collocazione giovanile non si fonda, come ha sottolineato Giancotti, su prove determinanti[324], ci limitiamo a rilevare da un lato una traccia emotiva generica ( ad es., l’incipit: “Quegli beato è, del Signor c’ha santa  temenza; sicuro e lieto il fa sua legge pia.”[325]) che lo può avvicinare, in contrasto con gl’impeti giovanili, ai motivi del periodo della ‘conversione’, dall’altro l’importanza attribuita dallo Stilese, con particolare considerazione della poesia biblica di David, alla Bibbia , che sembra difficile tradurre in una fredda parafrasi. Sono però soltanto ipotesi a posteriori che non trovano sviluppo e conferma nell’elegia.


Note
[312] Da un punto di vista tecnico il distico elegiaco latino costituisce la base primaria per la costruzione del distico di versi italiani che Campanella utilizza in queste tre elegie: esametro e pentametro del distico latino sono resi con un verso doppio, che è formato dalla somma di versi quali il settenario e il novenario in rispondenza dell’esametro, e il senario e l’ottonario in rispondenza al pentametro.

[313] Al senno latino, in Le poesie, ed.cit., n. 87, pp. 446-447 (i corsivi sono miei). Per quanto concerne la datazione di questa elegia, la critica si è progressivamente allontanata da una facile collocazione nel periodo romano (1594-95), accreditando l’ipotesi di una stesura cronologicamente vicina a quella di Al sole (1605-1607), dichiarata dallo stesso Campanella. Se Gentile sosteneva fermamente l’appartenenza di questa elegia al periodo romano, sulle base dei passi del Syntagma relativi ai primi esperimenti con «metrica barbara», L. Firpo supportava la stessa conclusione, ma soltanto in quanto possibilità a suo vedere più plausibile ed individuando nel riferimento alla «fossa», nell’esposizione di Al senno latino, un elemento che avrebbe potuto motivarne una posticipazione agli anni di Castel Sant’Elmo (cfr. Ricerche Campanelliane, ed.cit., p. 248) . Proprio sulla base di questo elemento R. Amerio sosteneva una datazione analoga a quella di Al sole (cfr. supra, nota 10), e F. Giancotti, in assenza di un «impedimento» realmente determinante. la plausibilità di entrambe le ipotesi (Le poesie, ed.cit., p. 446).

[314] Cfr. L. Bolzoni, La ricerca campanelliana di una nuova lingua e di una nuova metrica, ed.cit., p. 42. 
[315] Ivi, p. 43. 
[316] Al senno latino, ed.cit., p. 447 (i corsivi sono miei).
[317] L. Bolzoni, La ricerca campanelliana di una nuova lingua e di una nuova metrica, ed.cit., p. 42. 
[318] Ivi, p. 44. 
[319] Cfr. M. Guglielminetti, Tommaso Campanella poeta. Una guida alla lettura, Introduzione a T.C., Scelta d’alcune poesie filosofiche, Torino 1982, pp. 29-31. Il passo dantesco a cui viene fatto riferimento è: «e l’idioma ch’usai e ch’io fei» (Par. XXVI, 114). E’ Abramo che parla in prima persona e fa riferimento al linguaggio primigenio da lui usato. 
[320] Cfr. L. Bolzoni, La ricerca campanelliana di una nuova lingua e di una nuova metrica, ed.cit., p. 44. Il passo virgiliano è il seguente: “iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; / iam nova progenies coelo demittitur alto” (IV, 6- 7; il corsivo è mio).
[321] Al senno latino, ed.cit., p. 447.(i corsivi sono miei). 
[322] Cfr. A. Asor rosa, Tommaso Campanella, in Il Seicento. La nuova scienza e la crisi del Barocco, in aa.vv., La letteratura italiana. Storia e testi, vol. V, tomo I, Laterza, Bari 1974, p. 201, dove, in riferimento a questi passi di Al senno latino, si afferma quanto segue: «il ricorso alla poesia di una nazione, che aveva saputo superare potentemente i propri limiti geografici e farsi impero, serve a facilitare la trasmissione del discorso, oltre che a distinguerlo nettamente dalle degenerazioni retoriche contemporanee».
[323] Cfr. F. Giancotti, Le poesie, ed.cit., p. 449, dove in relazione alla traduzione non letterale del Salmo, lo studioso afferma:«le variazioni sono spesso riconducibili a due ordini di intenti: quello dell’intensificazione di motivi e immagini e quello della rispondenza allo schema metrico del distico elegiaco». 
[324] Ibid. Giancotti sostiene che dal legame tra esercitazione e traduzione, non così saldo da escludere altre ipotesi, non segua necessariamente l’attribuzione di questa poesia al periodo romano (1594-95), in cui sono collocati i primi esperimenti: la data resta incerta.
[325] Salmo CXI, Beatus vir qui timet, in Poesie, ed. cit., n. 88, p. 449.

  








Bibliografia/Opere su Tommaso Campanella




Tesi di laurea di Michele Nucciotti
Relatore Prof.ssa Germana Ernst
Correlatore Prof. Giacomo Marramao


ANNO ACCADEMICO 2005/2006

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