DE OPTIMA REPUBLICA: CITTADINANZA, STATO IDEALE E COMUNITÀ DEI BENI





INTRODUZIONE


1. Dal soggiorno padovano al ritorno in Calabria


1.2. Tra profezia e realismo: una ‘guida’ per la realizzazione della monarchia universale 

2. Dalla congiura agli ultimi anni di prigionia

2.1. Sapienza, ragione e natura contro il dominio del caso

2.2. De optima republica: cittadinanza, stato ideale e comunità dei beni

La definitiva redazione latina della Città del Sole confluirà, come vedremo, nell’edizione parigina della Philosophia realis (1637) in appendice al De politica, che sarà corredato anche da quattro quaestiones politicae, «già annunciate da Tobia Adami nell’edizione francofortese del 1623»(33). Mentre la prima, Dominio et regno, si interroga sulla relazione tra questi due concetti e sull’opportunità di identificarli, in un primo articolo, e sulla legittimità o la ‘violenza’ del dominio umano secondo il diritto divino o naturale, nel successivo, la seconda e la terza trattano, accusandone impietosamente i limiti e le contraddizioni, aspetti riguardanti la riflessione politica di Aristotele. Infine, la quarta, l’unica insieme alla terza ad essere stata pubblicata dopo l’edizione seicentesca, si confronta con le varie obiezioni alla proposta campanelliana di città ideale e all’utilità stessa dell’elaborazione di un modello perfetto di Stato.   
Nella Terza questione politica(34), nello specifico, Campanella discute alcuni punti di quella che Aristotele, nel VII libro della Politica, descrive come la migliore forma di stato. Tra gli aspetti menzionati ed attaccati tenacemente dallo Stilese merita sicuramente di essere ricordata la questione dell’‘estensione del diritto di cittadinanza’, capace di testimoniare in modo emblematico la distanza tra i due pensatori. Prendendo le mosse da quattro diversi punti di vista, poiché il filosofo greco, a suo dire, si rivela «in contraddizione con se stesso, con Dio, con la natura e con la scienza politica»(35), lo Stilese sottolinea che se i «mestieri» costituiscono una parte necessaria dello Stato, come Aristotele ha sostenuto enumerando le componenti indispensabili ad una città, senza di loro lo Stato non può esistere, se invece contadini ed operai sono schiavi alla stregua delle bestie allora non costituiranno una componente necessaria, poiché «senza bestie possiamo vivere, ma non senza uomini». Questa puntualizzazione serve al filosofo calabrese per attaccare l’esclusione dalla cittadinanza di coloro che attendono ai ‘lavori manuali’, una scelta innaturale ed irrazionale, perchè chi appartiene ad una medesima specie quando entra a far parte di un unico «composto naturale», come una comunità politica, ne diventa parte integrante concorrendo insieme alle altre componenti, ognuno secondo le diverse attitudini, a costituirne l’essenza. Se quindi contadini e nobili appartengono alla stessa specie, se sono uomini e in quanto tali, per la naturalità della dimensione sociale dell’uomo, animali politici, verranno a comporre «l’ordine politico della società civile come soggetti parziali di un’unica specie». Dalla differenza di ruoli all’interno della comunità non segue infatti la loro separazione ne tanto meno la loro esclusione dalla vita politica, così come dall’esercizio di diverse funzioni all’interno del corpo non segue la loro dissociazione, poiché «altrimenti un corpo sarebbe costituito da un solo membro»(36)
La ragione che Aristotele attribuisce all’esclusione delle classi lavoratrici dal diritto di cittadinanza, ovvero l’inidoneità alla virtù, per il cui esercizio è necessario l’ozio, mostra la propria debolezza, anche di fronte a quanto attestano le Sacre Scritture, dove molti personaggi, come Mosè e i re David e Saul, furono pastori o, come Noè, agricoltori, o di fronte alla storia profana, romana in primis, piena di testimonianze analoghe. Chi esercita tali mestieri può quindi sviluppare senza limitazioni tutte le virtù, grazie proprio a quella stessa semplicità con cui si affidano al comando. Inoltre, come ogni membro del corpo ha la sua porzione di virtù che gli consente di mettere in atto la sua specifica funzione, così ogni componente sociale ha la sua peculiare virtù che gli permette di svolgere il suo ruolo particolare in relazione al tutto. Infine, se «l’anima tutta intera è presente nelle singole parti»(37) e la religione è l’anima dello Stato ed è venerata da ogni cittadino, senza alcuna esclusione, contadini ed operai vi metteranno maggiore devozione, in quanto parte tanto della specie umana quanto dello Stato, mostrandosi capaci di «giungere alla beatitudine»(38). La forma di Stato proposta dal filosofo greco non può reggersi, in sostanza, perché contro natura, perché considerare pari a bestie coloro che producono benefici necessari alla tua sopravvivenza è innaturale.
Nel primo articolo(39) della Questione quarta sull’ottima repubblica Campanella cerca invece di rispondere a chi mette in discussione l’opportunità stessa di elaborare un modello di città ideale e di parlare di «un tal modo di vivere in comunità e senza peccato», che «non si è mai visto né mai si vedrà»(40). Oltre ad evidenziare, a supporto della propria tesi, la considerevole mole di filosofi che si sono cimentati nella descrizione di uno stato ideale, richiamando l’attenzione soprattutto sull’autorità di Platone e sulla recente esperienza di Tommaso Moro, lo Stilese ribatte ricorrendo ad esempi distanti nella forma ma vicini nella sostanza, tesi a testimoniare l’utilità della prospettiva innescata, in qualsiasi ambito, da un modello di perfezione che, per quanto irraggiungibile, venga a costituire tanto uno stimolo al suo raggiungimento quanto una guida a migliorarsi nella sua imitazione. 
La replica campanelliana si estende poi, con il sostegno delle opere dei Padri, a quei teologi moderni che ritengono una forma di governo come quella esposta nella repubblica platonica non realizzabile integralmente ad uno stato di natura corrotto, ma possibile nello stato di innocenza. Il filosofo calabrese ne sostiene invece l’effettuabilità e la lega in modo indissolubile al rinnovamento della purezza originaria avviato dall’avvento del Signore. «Cristo ci ha restituiti allo stato di innocenza» e ciò rende, come mostrano le esperienze comunitarie dei primi cristiani, «un simile modo di vivere»(41) non solo concretamente possibile e realizzabile, ma anche provato dai fatti. A chi ne mette in dubbio la capacità di sopravvivere nel tempo lo Stilese contrappone invece la ferma convinzione che durerà «fino ai periodi generali delle vicende umane, che arrecano un nuovo secolo». 
Ma il filosofo calabrese, andando oltre una disputa generica sull’utilità di teorizzare un modello di città ideale e sulla sua realizzabilità, mette in evidenza gli strumenti e le finalità che sono alle base della stesura del suo «dialogo sulla repubblica». Affinché venisse alla luce la «conformità tra verità evangelica e verità naturale»(42), Campanella ha voluto che La città del Sole fosse, nei limiti della ragione umana, il frutto di ragionamenti filosofici. La sua ambientazione è anteriore alla rivelazione per questo ed anche perché i Solari, organizzando la loro vita conformemente a ciò che detta la ragione naturale, si rendano meritevoli di conseguire la migliore esistenza di cui l’avvento di Cristo è portatore, testimoniando la consequenzialità tra religione naturale e religione cristiana nella razionalità che ne costituisce il comune denominatore. 
Fermo è il convincimento di Campanella che nel suo modello di città ideale tutto sia stato organizzato nel migliore dei modi possibili, che la scelta comunitaria nella gestione della vita dei Solari, in quanto frutto dell’imitazione della razionalità della natura, porti all’eliminazione di ogni vizio che si contrapponga alla stabilità delle relazioni sociali, costituendo allo stesso tempo un’esemplificazione della sua fattibilità. Il rispetto delle inclinazioni naturali, la priorità e la diffusione della conoscenza, la sovrapposizione dell’amore per la comunità all’amor proprio e l’abolizione della proprietà e dell’ozio sono scelte che muovono tutte in questa direzione, in una classica concezione della medietà come valore identificatorio della virtù, a testimonianza della naturalità di una costruzione teorica che se appare irrealizzabile lo è soltanto rispetto ad un mondo in cui domina la follia, come sottolinea lo stesso Stilese: «in ogni caso ho evitato i due estremi, privilegiando il loro punto medio, nel quale risiede la virtù, e perciò non è possibile immaginare una repubblica più felice o più semplice».
Per il filosofo la durezza dello stile di vita dei Solari è apparente, in quanto relativa alla nostra abitudine a vivere erroneamente, poiché la naturalità è nella ragione che si incarna nella virtù e non nel vizio. Ogni critica si scontra inesorabilmente con la ferma convinzione della solidità dei presupposti metafisici che hanno guidato i «ragionamenti filosofici» nella concezione della città del Sole, che nella sua struttura riflette i principi costitutivi dell’essere, presenti secondo diversa misura e proporzione in ogni ente, e dove «tutto è stato disposto nel migliore dei modi» perché il suo autore si è «basato sulla dottrina delle primalità metafisiche, osservando le quali nulla si trascura e o si omette»(43).
Al centro del secondo articolo(44) della Quarta questione c’è il tentativo di dimostrare, tra comunità e divisione dei beni, quale forma di gestione della proprietà sia più conforme a natura e maggiormente utile alla conservazione e all’accrescimento di una stato, qualità che nel pensiero campanelliano vengono teoricamente a coincidere. Come per il primo articolo, i riferimenti utilizzati dallo Stilese per supportare la propria tesi sono ricercati primariamente tra le opere dei Padri ed il dibattito si svolge in modo preponderante all’interno della tradizione teologica cristiana. L’articolo si apre con un richiamo ad una nota asserzione aristotelica, secondo la quale ad ogni forma di comunità dei beni, che riguardi i mezzi di produzione o i prodotti o entrambi, si accompagna naturalmente la deriva delle relazioni sociali e dello stato. La risposta campanelliana cerca di sottolineare come nella Città del Sole ci siano magistrati addetti all’amministrazione delle attività lavorative, che vengono distribuite secondo la naturale idoneità di ogni cittadino e attribuite con la partecipazione di tutta la comunità. La stessa cura è dedicata, grazie ad una distribuzione dei beni conforme ai bisogni di ognuno, a prevenire ogni forma di usurpazione. Ma a rendere opportuna la comunità dei beni è soprattutto la ragione che regola ogni fattore della vita sociale, facendo si che i cittadini svolgano spontaneamente le attività per le quali sono predisposti, perchè «ognuno ama svolgere quell’attività che gli è confacente per natura»(45)
E queste argomentazione si mostrano valide anche per rispondere alla critica del teologo domenicano Domingo de Soto, favorevole all’adozione della divisione, per il quale nella pluralità di ordini che costituiscono una repubblica, se ogni bene fosse comune, ognuno vorrebbe esercitare il ruolo che comporta meno oneri e più onori e, nell’impossibilità di soddisfare le esigenze di ognuno, si creerebbe inevitabilmente ingiustizia. Per Campanella l’ingiustizia ipotizzata dal Soto si ha invece solo in una «comunità violenta», dove «ciascuno fa officio contro a quello per che è nato»(46) e, nel governo, il caso prende il posto della ragione, ovvero i favoritismi e il nepotismo quello dell’esperienza e della conoscenza. Al contrario l’eliminazione delle parentele contribuisce a far sì che il principio di identificazione dell’idoneità ad un ruolo sociale risieda nella virtù, anche perché «la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie propria, onde nasce l’amor proprio»(47), sorgente di interessi personali che rendono l’uomo avido, distogliendolo dal fine che accomuna reciprocamente tutte le componenti comunitarie, ovvero il bene comune. 
Il terzo punto dell’articolo riguarda quindi l’impossibilità di esercitare, in assenza di proprietà privata, la virtù della liberalità, tesi aristotelica già espressa all’interno della Città del Sole, al cui cospetto Campanella esalta la grandezza di un’amicizia fondata sulla condivisione di conoscenze ed esperienze, in cui l’apparente assenza di liberalità trova la propria ragione nel fatto che «quanto è bisogno tutti l’hanno»(48).  Alla base della replica del frate domenicano vi è una concezione marcatamente teocratica del possesso, che fa di Dio l’unico proprietario naturale di ogni cosa(49). Pertanto, la liberalità per lo Stilese consiste piuttosto nel mettere ogni cosa in comune e non nel dare quello che hai ‘usurpato’ a Dio, ed è tutelata dalla presenza degli ufficiali, che prestano attenzione a «che nullo possa all’altro far torto nella fratellanza»(50).
Infine, l’ultimo punto affrontato nell’articolo ci introduce nel dibattito sulla comunità dei beni interno al cattolicesimo, in forte polemica con quei «teologi moderni», come il già citato Soto, che la condannano e sostengono l’opportunità della divisione e della proprietà privata(51). In modo particolare, lo Stilese si oppone con forza al tentativo di incorporare la proprietà nel diritto naturale, sostenendo la storicità della divisione, concessa soltanto dal diritto positivo. A chi definisce eresia la negazione della proprietà privata, male interpretando le tesi sostenute dai Padri, Campanella replica che, benché la Chiesa abbia concesso la divisione, lo ha fatto «in modo permissivo più che effettivo»(52), vedendovi un male minore rispetto all’ipocrisia. La contraddizione è quindi nel ritenere eretici coloro che seguono il diritto naturale, appoggiando coloro che ritengono la divisione necessaria nello stato attuale di natura corrotta. 
Il terzo articolo si sofferma invece sulla comunità delle donne, cercando di indicarne la giusta prospettiva, che permette all’autore di dimostrare come questo aspetto della Città del Sole sia del tutto conforme a natura, poiché finalizzato alla generazione, unico criterio di liceità sessuale che caratterizza la vita dei Solari(53).




Note
(33) G. Ernst, Tommaso Campanella, ed. cit., p. 194.
(34) Cfr. Quaestio tertia. De optima republica, in La città del Sole, ed. cit., pp. 111-137.
(35) Ivi, p. 117.
(36) Ivi, p. 119.
(37) Ivi, p. 121.
(38) Ivi, p. 123.
(39) Cfr. Quaestio quarta. De optima republica, in La città del Sole, a cura di G. Ernst, Rizzoli, Milano 1997, pp. 95-123.
(40) Ivi, p. 97.
(41) Ivi, p. 111.
(42) Ivi, p. 107.
(43) Ivi, p. 111.
(44) Cfr. Quaestio quarta. De optima republica, ed. cit., pp. 123-145.
(45) Ivi, p. 139.
(46) Aforismi politici, a cura di L. Firpo, Istituto Giuridico dell’Università, Torino 1941, p. 89.
(47) La Città del Soleed. cit., p. 11.
(48) Ivi, pp. 11-12.
(49) Cfr. Quaestio quarta. De optima republica, ed. cit., pp. 125-127.
(50) La Città del Sole, ed. cit., p. 12.
(51) Cfr. Quaestio quarta. De optima republica, ed. cit., pp. 141-145.
(52) Ivi, p. 143. 
(53) Ivi, p. 145-173. 








Tesi di laurea di Michele Nucciotti
Relatore Prof.ssa Germana Ernst
Correlatore Prof. Giacomo Marramao

ANNO ACCADEMICO 2005/2006

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